I Vincitori di Andaras 2021
Per la capacità di condensare in sessanta secondi esatti, talento, intelligenza, sensibilità, interpretazione pathos, e colpo di scena finale, insomma di cinema.
Un minuto, tanto poco ci vuole per entrare nel racconto della radio cronaca di Leo brutalmente interrotta dal manganello di una guardia, per passare d’una dimensione del gioco infantile con la cornetta della doccia trasformata in microfono a quella brutale, brulla, disperata, ottusa di un campo di gioco sì ma all’interno di uno di concentramento per profughi. E perché la rete inseguita da Messi nelle parole dell’aspirante Pizzul ridiventi la rete di recinzione di un campo tendato in mezzo al deserto.
Una metafora amara, un brutale risveglio dal sogno alla realtà per il telecronista in erba e il suo giovanissimo compagno cieco, un efficace colpo nello stomaco per noi spettatori, un monito sulla condizione di tanti ragazzini che pure condividono la nostra modernità e i suoi eroi, ne restano però ai margini, ne vivono le briciole mediatiche, ne sono esclusi.
Un film asciutto, pensato. Un’opera che non infiocchetta la realtà che racconta - la miniera d'oro di Perma, in Benin, né con troppe leziose immagini né con troppe informazioni, ma crea, piuttosto, un senso dell'umanità che abita quella realtà, e ne illumina i luoghi, attraverso angolazioni insolite.
Un racconto obiettivo di fortune, sfortune, di sfide quotidiane alla sopravvivenza al lavoro e alla morte. Il cammino è quello della scoperta dell'oro che può diventare eroismo o condanna.
Per la capacità di non giudicare, ma di esporsi, lasciando lo spettatore in uno stato d'animo di sospensione e ascolto, ascolto della normalità che Simon Panay, il regista, declina con grazia e gentile ironia.
Il racconto di un evento planetario, osservato dal punto di vista degli abitanti di un luogo remoto e lontano dall'immaginario cinematografico legato alla fantascienza classica,
e il rapporto tra un padre ed un figlio che diventa il confronto tra due generazioni distantissime tra loro.
Un film che ci fa una domanda: cosa succede quando le nostre convinzioni incrollabili vengono spazzate via da un evento deflagrante, che le trasforma istantaneamente in stantii pregiudizi? Fino a che punto saremmo in grado di resistere ad una tale onda d'urto?
Per la capacità di utilizzare in maniera innovativa uno dei classici topos della fantascienza, il premio per la categoria Narrative Shorts va a “So what if the goats die".
Per la cura e l’attenzione al dettaglio con cui la regista ha scelto di raccontare il viaggio più drammatico: quello di un gruppo di migranti, che parte carico di aspettative e speranze, tra balli e canti, e finisce in tragedia. Il cassone di un camion frigo come scenario, quarti di bue sanguinolenti appesi come quinte, il contrasto tra la musica e l’aria spensierata del cinico autista e la preoccupazione che diventa panico delle persone rinchiuse nel retro del tir: tutto viene reso con accuratezza e dovizia di particolari. E il fatto che gli interpreti siano bambole non toglie drammaticità e pathos alla narrazione, ispirata a un episodio realmente accaduto, in un crescendo di cui lo spettatore intuisce presto lo spaventoso epilogo. Un’esile lama di fiducia solo nel colpo di scena finale, la scoperta dell’unico piccolo sopravvissuto nel ventre di una delle carcasse di animali trasportate.
Per la capacità di raccontare in modo elegante, ma mai edulcorato, la ricerca di libertà di un cittadino della periferia del mondo. Un giovane uomo che sacrifica per il viaggio, e per la promessa intrinseca dello stesso, la sua pelle, le sue ossa, i suoi nervi e infine anche il suo affetto più caro. Mentre il viaggio rimane nel racconto una speranza lontana, lo spettatore viene trascinato in un vortice di emozioni che tocca molti degli archetipi fondativi della cultura occidentale. Il protagonista, e con lui lo spettatore, si ritrova naturalmente di fronte alla domanda delle domande: Cos’è un uomo?
Il buio conclusivo sublima l’impossibilità di una risposta univoca, lasciando aperta una questione che non si dovrebbe avere mai l’ardire di chiudere.
Un’opera in cui si ritrova tutta la complessità della tragedia greca, trattata però con la semplicità del racconto moderno. L’unità spazio temporale e la linearità nell’esposizione dei simboli (il peschereccio, il telefono, l’acqua), unite al linguaggio sporco e morbido del pescatore, restituiscono al racconto un equilibrio drammaturgico tale da tenere per tutto il film una temperatura emotiva alta ed un interesse reale per il destino de personaggi raccontati. Il film riesce a portare il tema del viaggio dalla sua dimensione più semplice alla più profonda ispezione antropologica. Dal “nostos” di omeriana memoria fino alle contraddizioni e ai paradossi della società moderna il film riesce a permeare l’immaginario dello spettatore, rendendo giustizia a una tragedia mai come oggi attuale come quella dell’immigrazione.
Un film di visioni e visione, che guarda alla forza della comunità, ancorché formata da due soli individui che si riconoscono e che - nel riconoscersi, diversi ma simili - potenziano un difetto rendendolo virtù. L'amarezza del protagonista dotato di bislacchi superpoteri che gli procurano più imbarazzi che vantaggi, è la nostra quando ci specchiamo nella non accettazione delle nostre mancanze. Tra musiche alla Quentin Tarantino e paesaggi da film western, il film anche un delicato, divertente omaggio al viaggio d’avventura on the road. Quello salvifico, che fa da cesura tra una vita e l’altra: come avviene per Archibald, quando trova nella solitaria Indiana chi sa accettare e condividere la sua diversità. Un film che è un surreale invito del regista Daniel Perez a considerare i difetti come superpoteri, condito di brillante comicità.
Per la capacità di raccontare un viaggio rendendolo un’esperienza sensoriale attraverso un sapiente uso del suono; per la costruzione di una fotografia in grado di rendere lo spettatore partecipe della storia, come la stesse vivendo in prima persona e per la creatività del montaggio che si rincorre con le musiche in un susseguirsi di emozioni e scenari.
Per la capacità di immergere e far vivere allo spettatore la tensione che quotidianamente vive una brigata di un ristorante di alta cucina nel momento del servizio. Per la scelta dei soggetti ed il susseguirsi delle inquadrature narrano in maniera realista del duro lavoro dello chef e degli altissimi livelli di performance che si celano dietro un piatto che ci viene servito al tavolo.
Per la capacità di parlare di verità, di persone autentiche, di lavoro duro, di comunità la cui appartenenza culturale si lega alla coltivazione della lenticchia attraverso conoscenze, tradizioni, consuetudini, storie. Per essere riuscita a raccontare che sono i contadini i veri custodi della biodiversità di cui quotidianamente perdiamo un pezzo.
Fare le cose bene è una fatica, uno sforzo eroico e condiviso. Ringraziamo questo corto per avercelo ricordato.
Per essere riuscito a condensare in pochi minuti una storia affascinante - quella di un cuoco nomade - che accende la curiosità dello spettatore. Interessanti il racconto attraverso la sua voce narrante, la fotografia e il contrasto tra la natura selvaggia e i piatti di alta cucina.
Menzione speciale per un corto che ha tanti meriti, primo tra tutti quello di raccontare gli stereotipi legati ai popoli e alle appartenenze culturali per poi smontarli con l’ironia. The Chop affronta un tema come il confronto tra ebrei e arabi in modo così leggero da fare pensare che basterebbe una risata per iniziare a cambiare le cose. Bravi gli attori, belli i personaggi, divertente e ben strutturato.
Per la maturità espressiva delle sue parole e dei suoi silenzi.
La menzione speciale al giovane protagonista di Inverno (Timo's winter), Christian Petaroscia.
Una partita di calcio unisce un paese come mai era successo prima, una vittoria senza precedenti rimane nella memoria di chi l'ha guardata allo stadio, nella propria casa, o
in un paese lontano. I racconti dei protagonisti celebrano il loro paese e il potere del calcio che, allo stesso tempo, unisce un intero popolo e diventa una vera e propria eredità familiare, tramandata tra le generazioni.
Una partita di calcio dove l'immagine finale di un dittatore che cerca di appropriarsi di una vittoria sportiva, non lasciando la presa sulla coppa anche quando i calciatori la stanno
alzando al cielo, diventa la premonizione di quello che accadrà 7 anni dopo, quando la spinta di una rivoluzione, che proprio dalla Tunisia partirà per coinvolgere una grande
parte del mondo arabo, costringerà quello stesso dittatore a lasciare il potere ed il paese.
Per aver interpretato con carattere, stile, personalità, il tormentato e anticonformista personaggio di Bruna, in bilico tra orgoglio e delusioni, e per aver sostenuto con la sua voce una originale versione in lingua sarda della Carmen.
Per la leggerezza e l’ironia con cui – parodiando la famosa serie “La casa di carta” – mette in scena la diabolica riscossa di un gruppo di anziani in un mondo frenetico.
Per l’ambiziosa ricerca autoriale dimostrata nell'attenta composizione delle inquadrature e nell’imposizione di un ritmo delle immagini che ricorda la poesia.
Per averci raccontato una storia intima, di resistenza e coraggio, che diventa una finestra attraverso la quale partecipare di un racconto universale. Per la capacità di ricercare la bellezza anche laddove la guerra ha distrutto ogni cosa e per averci regalato una storia di grande resistenza.